Martedì, 22 Aprile 2008 21:32

Emilia rossa. Per un profilo del cattolicesimo a Reggio Emilia nel Novecento - n. 60 di Religioni e Società

Scritto da  Gerardo

Con il titolo Emilia rossa. Per un profilo del cattolicesimo a Reggio Emilia nel Novecento, è in uscita il numero 60 di Religioni e Società (gennaio-aprile 2008).

Religioni e Società è un edizione della Florence University Press, con redazione a cura dell'Associazione per lo Studio del Fenomeno Religioso (A.S.Fe.R.), patrocinata dalla Associazione Italiana di Sociologia (Sezione di Sociologia della Religione) e con il supporto del Dipartimento di Studi Sociali dell'Università di Firenze.
Visita il sito della FUP per informazioni su distribuzione e abbonamento a “Religioni e Società”.

Nel seguito puoi leggere l’editoriale di Arnaldo Nesti.
Presto torneremo con l’indice ed altri aggiornamenti. Stay tuned!


Editoriale
di Arnaldo Nesti

Questo primo numero di “Religioni e Società” del 2008, il sessantesimo della serie, è dedicato allo scavo di una realtà emblematica dell’Italia rossa e più precisamente ad aspetti del cattolicesimo di Reggio Emilia nel Novecento. Importanti contributi sono stati dedicati alla città emiliana nella sua articolata vicenda, anche nei suoi risvolti religiosi ed ecclesiologici. Il pensiero va immediatamente alle opere di Sandro Spreafico, a quelle di Daniele Menozzi e a quelle di Alberto Melloni, che meriterebbero da sole una puntuale ricognizione. Dunque con questo numero riteniamo di dover richiamare la singolarità di una situazione, con uno sguardo alla realtà del cattolicesimo italiano oggi.
Nel periodo estense la religione ha un singolare risvolto politico-culturale, subordinato a quello pubblico-politico secondo il principio del cuius regio et eius religio.
Il formalismo delle pratiche religiose finisce per annegare il fatto cristiano nella meccanica ripetizione di atti e cerimonie. Le condotte del popolo si snodano regolati ad nutum del potere. I controlli esercitati dalle municipalità sono asfissianti; è costante la prassi che porta alla perquisizione di chiese, alla espulsione di predicatori ogni volta che appaiono non graditi. È singolare l’alto numero di ecclesiastici colpiti da pesanti sanzioni. Una complessa operazione di polizia curiale giungerà e sospendere a divinis, tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento, una settantina di ecclesiastici, per i loro sentimenti repubblicani. I preti colpiti da sanzioni –come si ricava da un documento del tempo– sono «per la massima parte i più savi, i più illibati, i più dotti, la porzione eletta, insomma, di questa diocesi». La storia della chiesa reggiana, in particolar modo dopo l’unità nazionale, è per lunghi periodi storia di lacerazioni, di dialettiche interne non ricomponibili. Come mostra Maurizio Tagliaferri nel suo documentato saggio, il vescovo Marchi, nel primo Novecento, appare incerto di fronte a una società in trasformazione, grazie al processo di industrializzazione e all’espansione urbanistica in atto. Del resto, i socialisti a Reggio raccoglievano frutti copiosi per l’opera di Prampolini e per la sua idea di socialismo inteso quale religione austera e incorrotta di solarità, libertà e democrazia, come illustra Alberto Ferraboschi. La verità e la sfida religiosa socialista prampoliniana va ben oltre la critica mossa alla chiesa di legittimare strutture ingiuste. La situazione è resa particolarmente scottante per la presenza dei preti della ‘Plebe’, un gruppo cristiano critico del primo Novecento.
Dagli archivi parrocchiali emerge un profilo articolato di cattolicesimo. Si stenta, nel frattempo, a riconoscere come membri della medesima Chiesa un don Rinaldo Serrini, parroco di Marmirolo, arrestato come uomo del Rota, e un don Antonio Ferretti, prevosto di S. Ruffino, sospeso dalla predicazione per i suoi sentimenti filoliberali; un don Prospero Maiocchi, parroco di S. Zenone, che sostenne la pubblicistica conciliatorista, e un don Luigi Grasselli, che rappresenta l’intransigentismo temporalista; don Massimiliano Garavelli, filogaribaldino, e il vicario Iacopo Casoli, che tiene a direzione spirituale i legittimisti orfani di Francesco V.
Dunque, all’interno del mondo cattolico si forma una mappa impressionante: da una parte Rodrigo Levoni e Rodolfo Magnani non si propongono affatto di ridefinire la fede al di fuori delle formulazioni della teologia ufficiale, ma da coerenti cristiani per il socialismo spingono per nuovi sviluppi. Peraltro, la vicenda della Plebe –va ripetuto– non è esaustiva del modernismo. Il modernismo reggiano non è raffigurabile in un insieme di anelli concentrici di cui i Plebei sarebbero il perno, ma contempla stagioni diverse, piani non comunicanti, esperienze personali nettamente divergenti.
Che dire infatti dei fratelli Mercati? Quali le loro effettive posizioni, quali le trame dei loro rapporti, delle loro comunicazioni, al di là delle loro modalità espressive a livello formale?
A prescindere da valutazioni ideologiche su figure, uomini e gruppi, rimane il fatto che, al Censimento del 1911, 43.720 reggiani si dichiarano «senza religione» (alla stessa data sono 34.647 a Ravenna, 42.480 a Ferrara, 26.720 a Forlì, 59.244 a Bologna). Sviluppi allora impensati germoglieranno, successivamente, nella superficie reggiana. I sentimenti filofascisti di preti come Torquato Iori, di Vito Stefani e don Arturo Mamoli prevosto di S. Nicolò interpellano la coscienza collettiva. Del resto, nello stesso tempo si contano preti come Domenico Alboni e don Pasquino Borghi, che del fascismo furono forti oppositori. La stessa generazione esprime Aldo Dall’Aglio, vicecomandante della Brigata Partigiana ‘Fiamme verdi’, e Fulvio Lari, che va a morire in Albania convinto di servire la causa della patria fascista e anche la fede.
Nello sfondo della seminagione prampoliniana e del suo evangelismo non può essere taciuto un capitolo della fine della seconda guerra mondiale, riservato a figure emblematiche a livello della comunicazione di massa, quali don Alfonso Ferretti, ‘don Scarpone’, e –travalicando gli spazi reggiani– Leone Tondelli, come ci ricorda con ampiezza mons. Costi. Che dire peraltro dell’opera particolarmente combattiva di don Pietro Tesauri, futuro vescovo di Isernia e Venafro? Tra la fine dell’Ottocento e il primo ventennio del Novecento va ricordata la stagione in cui si svilupparono nel mondo cattolico cooperative, casse rurali e lo stesso Banco di S. Prospero. Si pensi all’impegno di mons. Cottafavi. Se ne ha riprova rileggendo la vicenda –anch’essa emblematica– della famiglia Cervi. Aspetti magmatici di una storia a lungo repressa esplodono; la violenza omicida scorre nelle vene della società reggiana, ed è difficile assegnare il torto e la ragione. Un capitolo tormentato, che tuttavia non può essere rimosso.
Alla fine della guerra il paesaggio cattolico è molto cambiato. Le scelte di tanti cattolici reggiani a favore della lotta armata furono possibili all’interno di trame ove si intrecciano gruppi e individualità. In modo particolare il problematico consenso di massa al fascismo imperiale accentua la contrapposizione fra fascismo e antifascismo, anche nel mondo cattolico. La divisione giunge a produrre un aspro confronto politico fra le stesse forze partigiane protagoniste della Resistenza reggiana, in pianura e in montagna. Ne è una prova la traumatica scissione delle ‘Fiamme verdi’ cattoliche nel 1944 e poi la stagione di violenza prima e dopo il 25 aprile 1945.
Una peculiarità reggiana è che tutti i principali esponenti del mondo cattolico e in modo particolare della DC postbellica, compresi gli ex militanti del partito popolare, partecipino alla Resistenza. Molti cattolici militanti tuttavia manifestano la loro disaffezione, maturano una loro nuova autonoma identità. Condivido in pieno le osservazioni di Spreafico: «Le scelte compiute ieri dai Luigi Viani, dai Giuseppe Giglioli, dai Prospero Viani, dai Rodrigo Levoni, dei Robero Magnani, oggi dai Valdo Magnani, Leonilde Iotti, Remo Salati, Franco Iotti, esigono non solo un gratuito rispetto, ma ripropongono una seria riflessione sulla testimonianza e sulle capacità di annuncio della Chiesa storica. Sottovalutare tutto ciò sarebbe imperdonabile, anche se non sarà del tutto possibile cogliere il giusto punto di intersezione tra vicende individuali ed esperienze di una realtà ecclesiale conosciuta e rifiutata» (vol. 1, p. 16).
E come dimenticare il ruolo di Giuseppe Dossetti? Che dire di Dossetti e del dossettismo?
Abbiamo ritenuto di dedicare alla questione una particolare attenzione, con i contributi di Chesi, di Corghi e anche di Spreafico. Un maestro senza discepoli.
Fermenti e sensibilità che rimandano a una paternità dossettiana resistono e riemergono costantemente. Vista da Reggio la lezione dossettiana, o meglio il fattore prioritario della sua complessiva lezione, appare l’istanza spirituale. Dossetti, anche di fronte al crescente e irreversibile pluralismo religioso, rimane un punto di riferimento per interrogarsi sui grandi mutamenti in atto, ben al di là di un approccio ecclesiocentrico, con una forte spinta in senso teologico.
Questo numero di “Religioni e Società”, nella sua modestia richiamandosi alla complessità della situazione storico-religiosa di Reggio Emilia, è lieto di porsi, indirettamente, in sintonia con i lavori dei ricercatori della diocesi di Reggio Emilia, coordinati da Giovanni Costi e Giuseppe Giovanelli, impegnati intorno al progetto storico voluto dal vescovo mons. Caprioli. Non si parla di mons. Socche e del suo vicario mons. Spadoni, come non si parla dei movimenti laici, né del PPI e della DC da De Gasperi in poi. Ripeto, non intendevamo fare la storia del cattolicesimo reggiano, ma delineare tratti della complessità del cattolicesimo di Reggio Emilia. A questo proposito ringrazio tutti i collaboratori di questo numero, in particolare Alberto Ferraboschi e Mirco Carrattieri, anche per la loro opera redazionale. Il richiamo a Reggio è particolarmente opportuno per gli intrecci di valori che contraddistinguono articolate e distinte storie collettive. Già il card. Martini, in un discorso dal suggestivo titolo C’è un tempo per tacere e un tempo per parlare, ha efficacemente sottolineato che oggi è a rischio «la sopravvivenza del costume cristiano, dell’ethos evangelico, e in ultima analisi di quell’ethos civile condiviso che sta alla base di ogni società democratica»; e che perciò l’intervento dei cattolici «deve riguardare i metodi della politica prima dei contenuti contrassegnati da particolari valenze etiche (come la vita, la famiglia, il lavoro, la scuola ecc.)».
Dunque, vi sono dei valori cristiani da custodire, ma vi sono anche virtù civili da promuovere? Qui è appunto il nodo per una «visione del problema non chiusa sugli interessi cattolici». Questo implica non più la guida dall’alto di un progetto di restaurazione cristiana, ma al contrario la valorizzazione delle differenze e delle responsabilità sul terreno della cultura e della politica, con la creazione di strumenti –oggi inesistenti– per un reale confronto, anche fra cattolici, ma soprattutto per l’apertura di un dialogo con la coscienza laica. Non si tratta di edulcorare le differenze e le distinte identità che la storia del paese ha prodotto, ponendole a frutto per la riedificazione della casa comune, in un tempo di grandi mutazioni. La tesi del primato morale del cattolicesimo post-democristiano, sottolineato da taluni settori cattolici, tende non solo a imporre l’insegnamento della religione cattolica, i principi della morale cattolica in materia sessuale ecc., continuando a ignorare che il primato del cattolicesimo si trova in una società a pluralismo variabile. Che pensare di una Chiesa che pretende di delegittimare qualunque altra etica non fondata sui propri principi? Che pensare della pretesa della gerarchia cattolica di avere rilevanza pubblica e di non risparmiare una continua aggressione verbale e mediatica contro chi non si allinea? Spesso viene da pensare che si vorrebbe, con ogni modo, alla fine della messa, ripristinare l’orazione austro-ungarica «Gloria eterna a sua maestà imperiale Franz Joseph»:
Serbi Dio l’Austriaco Regno,
Guardi il nostro Imperator
Nella fe’, che Gli è sostegno,
Regga noi con saggio amor!
Difendiamo il serto avito,
Che Gli adorna il regio crin;
Sempre d’Austria il soglio unito
Sia d’Absburgo col destin
.
È stato scritto: «Non è relativismo avere dubbi su una fede così connessa alle vicende terrene da secernere la presunzione di poterle cambiare con miracoli, preghiere, atti di forza. È avere coscienza dei propri limiti, assolutamente. È capire che non abbiamo diritto di comprendere un’altra cosa al posto di Dio, e darle lo stesso il nome di Dio».
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